Hace unos meses estuvo con nosotros Luca De Marchi,
con quien estuvimos recorriendo la ciudad, entrevistando algunos amigos
inmigrantes y reflexionando juntos sobre la experiencia de las
migraciones, las del pasado y las del presente.
Abramo che cantava “In mezzo al mare” con la paura di affondare
Luca De Marchi (Argentina)
L'Adige, 26-5-2019
“In mezzo ‘l mare / c’é un prá di foglie / senza la moglie / non si puó star/ In mezzo ‘l mare c’é un prá fiorito / senza il marito / non si puo star”. Questa canzone la cantava Abramo Battaia, s’intitola “In mezzo al mare” ed era diffusa nell’Italia settentrionale. Nato nel 1923 a Poia, frazione del comune trentino di Comano Terme, Abramo Battaia emigró in Argentina negli anni Trenta. Durante il viaggio scrisse un diario in un piccolo quaderno a rigue senza copertina: sulla prima pagina il nome del fratello maggiore e l’indirizzo di Bahia Blanca per raggiungerlo. Comincia il 7 gennaio del 1931, quando Abramo scrive le testuali parole : “Sono partito da casa, molto mal contento a dover lasciare i miei genitori.” Il saluto con il padre, racconta, fu una fredda stretta dimano alla stazione di Trento. Nessun pianto, nessun abbracio: “Bene, ciao”, gli disse il padre con la única raccomandazione di sposarsi solo se convinto. Nei giorni successivi Abramo racconta, in un italiano incerto, quello che vede dalla nave. Prima lElba e la Sardegna, poi Napoli, la Spagna e lo stretto di Gibilterra (“siccome era oscuro no o potuto vedere nulla pero si vedeva da una parte e anche dallaltra”), le isole Canarie (“il mare si trova assai calmo ed il tempo e mite”), Rio de Janeiro, Santo, in Brasile, dove lo incuriosiscono alcuni uomini che remano verso la nave per portare cesti di frutta. Ma, in tutto il viaggio, Abramo si emoziona solo quando scorge le montagne che gli ricordano il suo Trentino.
Man mano che i giorni passano la stanchezza di Abramo aumenta. Diversi sono i giorni di mal di mare, quando invece sta bene racconta di come aiutando i cuochi in cucina guadagna razioni in piú di cibo. Durante il passagio del Golfo di Santa Caterina , al sud del Brasile, scrive di aver paura perché lí il 25 ottobre di quattro anni prima era naufragata la barca “Principessa Mafalda”causando oltre quattrocneto morti tra i migranti. Una mattina, invece, é una brutta noticia a rovinargli il risveglio: “Dicevano che era morto un uomo da un colpo, io sono stato avellito, tutto il tutto il giorno e dicevano che a mezzanotte lo gettano in mare. Io continuo a pregare perché non succeda anche a me.”
In Argentina Abramo inizio a vendere dolci sulle strade di Bahia Blanca, poi divenne cuoco. Me lo racconta la nipote Ana Miravalles, che mi mostra il cestino con il quale inizió a lavorare lo zio: “Non lo fece diventare ricco, ma me lo mostraba sempre con orgoglio”. Ana é ricercatrice e archivista al museo piú importante della cittá e insegna italiano e dizione italiana per il canto lirico. Oltre al diario dello zio Abramo, conserva con cura le lettere che nonno Camillo invivava in Italia dall’Argentina: “Per ricevere una risposta ci volvevano al meno due mesi e spesso mio nonno si convinceva che la sua lettera non era arrivata e allora ne scriveva un’altra.”
Per trovare le lettere Ana si é spostata diverse volte in Trentino, esperienza che ricorda con entusiasmo: “I parenti volevano portarmi a conoscere le montagne, ma io insistevo per rimanere a casa a consultare a casa a consultare tutto quello che conservavano dei nonni e gli zii.”
Ana conosce molti italiani da quando ha aperto il blog “Italianos en Bahia Blanca” che racconta le loro vite. “Qui in Argentina siamo soliti a pensare che in Italia la gente non si interesssi dei parenti che hanno dall’altra parte del mondo. Ho sentito molti argentini chiesersi se gli italiani hanno intereriorizzato l’emigrazione come un trauma, o se vivono un inconsapevole sentimento di superioritá.”
Ci dirigiamo in un pastificio italiano, “Il Gondoliero”. Ci lavora Alessio, un italiano che per amore si é da poco trasferito in Argentina: “Nonostante la vicinanza culturale tra italiani e Argentini ho fatto fática ad ambientarmi”, racconta.
Dalle storie come quella di Alessio, Ana confessa di aver imparato a non giudicare e a non dimenticare la dimensione umana del dolore, che viene elaborateo in base al carattere di ognuno, e la dimensione del cambiamento: “Non é scontato che una personasi trovi improvisamente con paesaggi, odori, modi di parlare diversi. E’ un dolore che non si risolve in una generazione: ce ne vogliono due, tre, o forse anche di piú.”
Mentre parliamo, forse anche a causa dei bicchieri di vino che si susseguono durante la cena, non risesco a trattenere un pensiero che ho in testa da giorni. Poco prima che partissi, il tema della migrazione é diventato centrale in Europa e sono iniziati i primi respingimenti di barconi proveniente dal Nordafrica. Vorrei tenere separate le vicende che accadono in Europa da quelle che accaddero un secolo fa in Argentina perché ritengo sia giusto cosí: ma di fronte ad Ana non riesco a nascondere i punti in comune che ritrovo: i motivi della partenza, il viaggio pericoloso, le prospettive di vita base, i lavori umili, i grandi sacrifici, la diffidenza da parte degli altri cittadini, che spesso sfocia in discriminazioni anche violente.
Lei escolta, annuisce e poi responde: “Ti sarai forse accorto che qui ci sono persone che hanno vissuto una migrazione ma che, di fronte ai migranti di oggi, per esempio dalla Bolivia, vivono atteggiamenti di chiusura. Oggi tutti sono diventati esperti di migrazione e questo porta a parlare per pregiudizi. La questione é socioeconómica: i migranti dalla Bolivia sono visti con diffidenza perché sono poveri e poco istruiti, mentre quelli venezuelani, che sono educati e di clase media, sono sempre benvenuti.”
Pensavo che vivere una migrazione e incontrare l’Altro rendesse automáticamente una persona piú aperta e accogliente, ma se in molti casi é cosí, in molti altri no. Piu di un migrante di origine italiana mi ha raccontato di come vede con diffidenza imigranti che riempiono oggi il pianeta, o comunque di come la loro migrazione la rintengono diversa e meno encomiabile della propria.
Capisco ora, parlando con Ana, che per accettare la diversitá serve una predisposizione, un desiderio di conoscere e comprenderé. Ne parlo a lungo con ana: “Gli esseri umani hanno gambe, non radici –dice lei- non siamo cio che siamo in base al sangue, o grazie a chissa quale magia legata alla nostra terra. Affermare “mi sento argentino” o “mi sento italiano” non é cosí importante quanto incontrarsi e condivedere relazioni.”
Il mezzo piu efficace per riconoscere la nostra identitá é confrontarci con gli altri, conclude Ana, perché nell’Altro possiamo vedere riflessi noi stessi: quando di fronte ai boliviani mi chiederó ‘qual’é la loro visione dl mondo? In che modo vedono me straniero?’ in realtá mi staro chiedendo ‘qual’é la mia visione del mondo?’ perché se é vero che per me sono gli altri, é altrettanto vero che per loro l’altro sono io.
Da quando ho cambiato continente la mia cartina geográfica é cambiata e mi sono reso conto che, nonostante i secoli di supremazia, l’Europa non é la fucina sociale culturale política ed económica del monto. Qui ci sono persone che l’Italia non sanno nemmeno dove si trovi. Siamo consapevoli e preparati a questo cambiamento in cui quantitativamente, rispetto al numero di ‘altri da noi’, noi siamo la minoranza? La risposta é un in messaggio che Ana mi lascia prima di salutarmi e che rileggo piú volte mentre percorro la Ruta 35 per raggiungere il cuore della Pampa: “Nonostante la realtá ci sembri a volte oscura, alimentiamo la speranza, e continuiamo a lavorare per un mondo migliore.”
Abramo che cantava “In mezzo al mare” con la paura di affondare
Luca De Marchi (Argentina)
L'Adige, 26-5-2019
“In mezzo ‘l mare / c’é un prá di foglie / senza la moglie / non si puó star/ In mezzo ‘l mare c’é un prá fiorito / senza il marito / non si puo star”. Questa canzone la cantava Abramo Battaia, s’intitola “In mezzo al mare” ed era diffusa nell’Italia settentrionale. Nato nel 1923 a Poia, frazione del comune trentino di Comano Terme, Abramo Battaia emigró in Argentina negli anni Trenta. Durante il viaggio scrisse un diario in un piccolo quaderno a rigue senza copertina: sulla prima pagina il nome del fratello maggiore e l’indirizzo di Bahia Blanca per raggiungerlo. Comincia il 7 gennaio del 1931, quando Abramo scrive le testuali parole : “Sono partito da casa, molto mal contento a dover lasciare i miei genitori.” Il saluto con il padre, racconta, fu una fredda stretta dimano alla stazione di Trento. Nessun pianto, nessun abbracio: “Bene, ciao”, gli disse il padre con la única raccomandazione di sposarsi solo se convinto. Nei giorni successivi Abramo racconta, in un italiano incerto, quello che vede dalla nave. Prima lElba e la Sardegna, poi Napoli, la Spagna e lo stretto di Gibilterra (“siccome era oscuro no o potuto vedere nulla pero si vedeva da una parte e anche dallaltra”), le isole Canarie (“il mare si trova assai calmo ed il tempo e mite”), Rio de Janeiro, Santo, in Brasile, dove lo incuriosiscono alcuni uomini che remano verso la nave per portare cesti di frutta. Ma, in tutto il viaggio, Abramo si emoziona solo quando scorge le montagne che gli ricordano il suo Trentino.
Man mano che i giorni passano la stanchezza di Abramo aumenta. Diversi sono i giorni di mal di mare, quando invece sta bene racconta di come aiutando i cuochi in cucina guadagna razioni in piú di cibo. Durante il passagio del Golfo di Santa Caterina , al sud del Brasile, scrive di aver paura perché lí il 25 ottobre di quattro anni prima era naufragata la barca “Principessa Mafalda”causando oltre quattrocneto morti tra i migranti. Una mattina, invece, é una brutta noticia a rovinargli il risveglio: “Dicevano che era morto un uomo da un colpo, io sono stato avellito, tutto il tutto il giorno e dicevano che a mezzanotte lo gettano in mare. Io continuo a pregare perché non succeda anche a me.”
In Argentina Abramo inizio a vendere dolci sulle strade di Bahia Blanca, poi divenne cuoco. Me lo racconta la nipote Ana Miravalles, che mi mostra il cestino con il quale inizió a lavorare lo zio: “Non lo fece diventare ricco, ma me lo mostraba sempre con orgoglio”. Ana é ricercatrice e archivista al museo piú importante della cittá e insegna italiano e dizione italiana per il canto lirico. Oltre al diario dello zio Abramo, conserva con cura le lettere che nonno Camillo invivava in Italia dall’Argentina: “Per ricevere una risposta ci volvevano al meno due mesi e spesso mio nonno si convinceva che la sua lettera non era arrivata e allora ne scriveva un’altra.”
Per trovare le lettere Ana si é spostata diverse volte in Trentino, esperienza che ricorda con entusiasmo: “I parenti volevano portarmi a conoscere le montagne, ma io insistevo per rimanere a casa a consultare a casa a consultare tutto quello che conservavano dei nonni e gli zii.”
Ana conosce molti italiani da quando ha aperto il blog “Italianos en Bahia Blanca” che racconta le loro vite. “Qui in Argentina siamo soliti a pensare che in Italia la gente non si interesssi dei parenti che hanno dall’altra parte del mondo. Ho sentito molti argentini chiesersi se gli italiani hanno intereriorizzato l’emigrazione come un trauma, o se vivono un inconsapevole sentimento di superioritá.”
Ci dirigiamo in un pastificio italiano, “Il Gondoliero”. Ci lavora Alessio, un italiano che per amore si é da poco trasferito in Argentina: “Nonostante la vicinanza culturale tra italiani e Argentini ho fatto fática ad ambientarmi”, racconta.
Dalle storie come quella di Alessio, Ana confessa di aver imparato a non giudicare e a non dimenticare la dimensione umana del dolore, che viene elaborateo in base al carattere di ognuno, e la dimensione del cambiamento: “Non é scontato che una personasi trovi improvisamente con paesaggi, odori, modi di parlare diversi. E’ un dolore che non si risolve in una generazione: ce ne vogliono due, tre, o forse anche di piú.”
Mentre parliamo, forse anche a causa dei bicchieri di vino che si susseguono durante la cena, non risesco a trattenere un pensiero che ho in testa da giorni. Poco prima che partissi, il tema della migrazione é diventato centrale in Europa e sono iniziati i primi respingimenti di barconi proveniente dal Nordafrica. Vorrei tenere separate le vicende che accadono in Europa da quelle che accaddero un secolo fa in Argentina perché ritengo sia giusto cosí: ma di fronte ad Ana non riesco a nascondere i punti in comune che ritrovo: i motivi della partenza, il viaggio pericoloso, le prospettive di vita base, i lavori umili, i grandi sacrifici, la diffidenza da parte degli altri cittadini, che spesso sfocia in discriminazioni anche violente.
Lei escolta, annuisce e poi responde: “Ti sarai forse accorto che qui ci sono persone che hanno vissuto una migrazione ma che, di fronte ai migranti di oggi, per esempio dalla Bolivia, vivono atteggiamenti di chiusura. Oggi tutti sono diventati esperti di migrazione e questo porta a parlare per pregiudizi. La questione é socioeconómica: i migranti dalla Bolivia sono visti con diffidenza perché sono poveri e poco istruiti, mentre quelli venezuelani, che sono educati e di clase media, sono sempre benvenuti.”
Pensavo che vivere una migrazione e incontrare l’Altro rendesse automáticamente una persona piú aperta e accogliente, ma se in molti casi é cosí, in molti altri no. Piu di un migrante di origine italiana mi ha raccontato di come vede con diffidenza imigranti che riempiono oggi il pianeta, o comunque di come la loro migrazione la rintengono diversa e meno encomiabile della propria.
Capisco ora, parlando con Ana, che per accettare la diversitá serve una predisposizione, un desiderio di conoscere e comprenderé. Ne parlo a lungo con ana: “Gli esseri umani hanno gambe, non radici –dice lei- non siamo cio che siamo in base al sangue, o grazie a chissa quale magia legata alla nostra terra. Affermare “mi sento argentino” o “mi sento italiano” non é cosí importante quanto incontrarsi e condivedere relazioni.”
Il mezzo piu efficace per riconoscere la nostra identitá é confrontarci con gli altri, conclude Ana, perché nell’Altro possiamo vedere riflessi noi stessi: quando di fronte ai boliviani mi chiederó ‘qual’é la loro visione dl mondo? In che modo vedono me straniero?’ in realtá mi staro chiedendo ‘qual’é la mia visione del mondo?’ perché se é vero che per me sono gli altri, é altrettanto vero che per loro l’altro sono io.
Da quando ho cambiato continente la mia cartina geográfica é cambiata e mi sono reso conto che, nonostante i secoli di supremazia, l’Europa non é la fucina sociale culturale política ed económica del monto. Qui ci sono persone che l’Italia non sanno nemmeno dove si trovi. Siamo consapevoli e preparati a questo cambiamento in cui quantitativamente, rispetto al numero di ‘altri da noi’, noi siamo la minoranza? La risposta é un in messaggio che Ana mi lascia prima di salutarmi e che rileggo piú volte mentre percorro la Ruta 35 per raggiungere il cuore della Pampa: “Nonostante la realtá ci sembri a volte oscura, alimentiamo la speranza, e continuiamo a lavorare per un mondo migliore.”
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